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In questo “European Diversity Month 2021” si vuole sostenere l’importanza dell’uguaglianza come valore fondante di qualsiasi democrazia, vista come pari opportunità e come rispetto delle differenze.

Il mio parere è che, nonostante gli innumerevoli e meritevoli sforzi, in Italia si è tuttavia ancora lontani dal raggiungimento di questo obiettivo e che l’importanza del principio di uguaglianza in ambito sociale si sostenga con molta facilità rispetto a chi viene percepito simile a noi, e che ciò non avvenga con altrettanta facilità con chi non si ritiene tale.

Tutti gli eventi centrati sulle tematiche dell’accettazione delle differenze, del superamento dei pregiudizi e la promozione delle diversità, suscitano in me riflessioni sulla forte discrepanza che esiste tra il “politicamente corretto” e le realtà tristi, difficili e a volte drammatiche delle persone che vivono una di queste condizioni sociali. E mi viene da dire “Più se ne parla, e meno si fa”.

Qualcuno ha pensato di organizzare una giornata mondiale della persona, per promuovere il concetto di identità personale? Credo che questo potrebbe rappresentare un modo utile per concentrare il focus sull’insieme di caratteristiche che rendono l’individuo unico e inconfondibile, concetto indispensabile per promuovere l’uguaglianza sociale.

Parafrasando Giuseppe Pontiggia, dovremmo forse ispirarci ad Einstein, che rispondeva “razza umana”, ogni qual volta gli veniva richiesto di definire la propria etnia sul suo documento di identità; perché le differenze non devono essere ignorate, ma incluse in un orizzonte più ampio, quello dell’essere umano. Continua Pontiggia: “È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza.”

La creazione e promozione di eventi “pro e contro qualcosa”, specialmente se ciò avviene da parte di una maggioranza (la normalità) nei confronti di una minoranza (la diversità), non fa altro che evidenziare l’esistenza di condizioni esistenziali, biologiche e sociali, che vengono circoscritte all’interno di una definizione – condizione essenziale per poterle riconoscere – e incluse all’interno di categorie ancora più ristrette e più specifiche.

Ciò sembra camuffare un modello interno rappresentativo della normalità, che porta inconsapevolmente a concepire la diversità con distacco. Forse la promozione per il rispetto delle differenze nasconde in realtà il bisogno di voler annullare ogni diversità che sia fonte di imbarazzo?

Di fatto, il termine diversità si connette al concetto di anormalità e di discostamento dalla maggioranza, la quale maggioranza rimanda ad un gruppo al quale fare riferimento e al quale appartenere.

Tajifel e Turner, con la loro “Teoria dell’Identità Sociale” (Tajfel & Turner, 1979), ci insegnano che quando entriamo in contatto con soggetti appartenenti al nostro stesso gruppo sociale, le differenze vengono minimizzate e le somiglianze accentuate; quando invece ci confrontiamo con soggetti appartenenti ad un gruppo diverso dal nostro le differenze vengono enfatizzate, e le somiglianze minimizzate o contestualizzate.

Da ciò ne consegue che l’attenzione sulle differenze non farà altro che evidenziare la presenza di differenze.

Ma poi ci viene anche detto che diversità e differenza sono due termini che non hanno lo stesso significato. Che le differenze producono disuguaglianza e che il principio di uguaglianza combatte le differenze e si nutre delle diversità.

Vediamo la definizione del vocabolario Treccani di entrambi i termini:

diversità s.f. [dal lat. diversĭtas -atis]: 1. L’esser diverso, non uguale né simile: d. d’aspetto, di colore; d. di opinioni, di gusti; d. biologica. 2. In filosofia, termine che indica la negazione dell’identità. 3. La condizione di chi è, o considera sé stesso, o è considerato da altri, «diverso» (omosessuali, disabili, emarginati, ecc.);

differènza s.f. [dal lat. differentia, der. di diffĕrens -entis: v. differente]. – 1. L’esser differente; mancanza di identità, di somiglianza o di corrispondenza fra persone o cose che sono diverse tra loro per natura o per qualità e caratteri: in filosofia, per d. s’intende l’alterità, ossia la non identità, tra cose appartenenti allo stesso genere.

Differenza e diversità sono sinonimi, e nel linguaggio quotidiano e concreto la diversità non viene considerata una ricchezza ma una forma di inferiorità; entrambi i termini rimandano ad un significato di anormalità, negatività, imbarazzo, disgusto e compassione.

E, cosa più importante, entrambi i termini rimandano al concetto di negazione e annullamento dell’identità. L’identità, in psicologia, è la caratteristica di un soggetto per la quale egli si distingue dagli altri. Ecco il paradosso: si vuole valorizzare la persona e lo si fa utilizzando un termine che annulla la persona.

Un noto aforisma di Karl Kraus dice “La malattia più diffusa è la diagnosi”. Kraus era un giornalista, umorista e aforista vissuto a cavallo tra il primo e secondo conflitto mondiale. Era un esteta del linguaggio e un accanito contestatore di Freud e della psicoanalisi che, a suo dire, attraverso il linguaggio creava e strutturava delle identità.

Provando ad interpretare questa sua metafora, potremmo dire che ogni diagnosi/definizione/sentenza diventa un pezzo di realtà, e si presta a fungere da etichetta da incollare ad uno dei contenitori che fanno parte dell’archivio che è presente nella nostra biblioteca mentale. Ciò è fisiologico, poiché il nostro cervello ha bisogno di categorizzare tutto quello che ha intorno e che non conosce. E questo processo accade attraverso l’associazione tra gli stimoli che ci arrivano dall’ambiente e le esperienze che abbiamo accumulato nel nostro vivere quotidiano.

Se abbiamo appreso che è bene stare lontani dai “diversi e anormali” (per il loro orientamento sessuale o per il colore della pelle, o per alterazione della salute fisica o mentale o altro), ecco che il nostro cervello mette in atto i meccanismi cognitivi specializzati nel riconoscimento dei gruppi sociali, dando luogo ad uno stereotipo sociale.

Anche Franco Basaglia affrontò questa tematica, nella sua battaglia per una revisione ordinamentale degli ospedali psichiatrici in Italia. Lui contestava la considerazione del malato come un “non uomo” (negazione dell’identità) e riteneva che per avere un rapporto con un individuo, fosse necessario impostare questo rapporto indipendentemente dall’etichetta che lo definisce. Perché la definizione assume il peso di un giudizio di valore, che va oltre il significato della persona.

Il termine “diversità” non sembra compatibile con l’ideale dell’uguaglianza, e l’affermazione e la promozione di una diversità contiene il rischio di convalidare la diseguaglianza sociale di determinati gruppi di individui. Credo che, più che affannarsi alla spasmodica ricerca di termini che rendano il più possibili “neutre” delle situazioni scomode, sia preferibile imparare a mettere in primo piano la persona, riconoscendo le differenze (perché non possono essere ignorate), ma tenendole tra parentesi.

Inoltre sarebbe utile imparare (e insegnare) a comunicare senza discriminare. Perché la mente umana non mantiene gli stereotipi per una erronea tendenza all’errore, ma per non rimanere senza schemi e senza aspettative; talvolta per ottenere la riduzione degli stereotipi è sufficiente fornire alternative.

Le parole hanno un peso, come ci ricorda Tiziano Ferro (non tutti sanno che è laureato in lingue con specializzazione in interpretariato e traduzione) nel suo noto monologo, ma più che le parole ha un peso notevole l’uso errato delle parole e del linguaggio in generale.

Per imparare a comunicare senza discriminare è necessario, prima di tutto, avere l’umiltà di rinunciare al verbo essere, almeno in determinate circostanze.

Sui banchi di scuola ci è stato insegnato che una delle funzioni principali del verbo essere risiede nella sua funzione ausiliare: un verbo che si accorda a un altro verbo per esplicitare una certa costruzione temporale; tuttavia, il verbo essere non ha un significato univoco, tutt’altro! Si fa carico di più significati tra cui, il più importante di tutti è quello identitario (Frege 1892, Russell 1919).

Nel momento in cui noi diciamo “Giuseppe è: disabile, omosessuale, nero, ecc.”, noi lo chiudiamo e lo ingabbiamo in una categoria più ristretta e più specifica che assume come dominante la parte carente, inadeguata, imperfetta, deficitaria, quella che noi gli abbiamo assegnato e per la quale Giuseppe sarà destinato a far parte di una minoranza.

Un’alternativa consigliata potrebbe essere “Giuseppe ha: la pelle nera, un orientamento omosessuale, una forma di disabilità, eccetera”.

In questo modo, utilizzando ha, la persona viene messa in primo piano poiché la forma logica del verbo avere consiste nel verbo essere (persona) unito a (specificità).

Imparando ad utilizzare un linguaggio positivo, appropriato e funzionale, potremo dare il nostro contributo per contrastare tutti quei fenomeni sociali che si sviluppano nell’interazione con l’altro e che prevedono una percezione di superiorità del proprio gruppo rispetto ad un altro e raggiungere l’obiettivo di piena uguaglianza.